Oggi vi presentiamo un nuovo racconto della nostra rubrica “parole incantate davanti a una tazza”.
“Sono solo punti di vista” di Luigi Dinardo parla di ingiustizie, dei privilegi delle persone ricche cui basta un nome e tanti soldi per sfuggire alla legge e di un uomo che ha deciso di farsi giustizia da solo.
Sono solo
punti di vista
di LUIGI DINARDO
Sono qui, in quest’aula di
tribunale, ad attendere con trepidazione la sentenza del giudice. Ma ho come la
netta sensazione di sapere come andrà a finire. Angelo Morlacchi, l’uomo che ha
disintegrato la mia famiglia con il suo Suv da cinquantamila euro, ha un
malefico sorriso stampato sul volto. Non mi stupirei se si fosse comprato
questo giudice da strapazzo con gli occhiali quadrati. Sembra essere uscito da
una di quelle serie americane tanto di moda negli ultimi tempi. Incrocio il suo
sguardo per un attimo. È assente, perso nel vuoto.
Forse vuole solo tornare a casa per pranzare con la sua patetica moglie. Di mia
madre non gliene frega niente. Non gli interessa sapere che è morta cercando di
proteggere con il suo corpo il piccolo Michele, sei anni appena ma tanta voglia
di giocare al gioco più bello del mondo: la vita. Scommetto che non sa neanche
il nome di mio padre, un infaticabile lavoratore che ha donato tutto se stesso
alla famiglia. No, non vuole fare giustizia. Vuole solo tornare a casa. Ha
l’aria stanca, assonnata, non vede l’ora di chiudere la pratica. Non voglio
però che tutto sia così semplice. Non può finire tutto in una bolla di sapone.
L’aula
si fa silenziosa. Il brusio s’interrompe di colpo e il giudice prende la
parola.
«Condanno l’imputato a otto
mesi di arresti domiciliari.»
Quel
parassita assassino di Angelo Morlacchi sorride. Forse sapeva come sarebbe
andata a finire. È ricco, giovane, famoso e altolocato. Può comprarsi mezza
città se vuole. Ma dentro di lui alberga il male più assoluto. Non si possono
uccidere tre persone sulle strisce pedonali senza neanche provare a
soccorrerle. Non si può guidare un’auto con un quantitativo di alcol nel corpo
sei volte superiore al consentito. Non si può tollerare tutto questo. Ed io di
certo non me ne starò qui con le mani in mano.
«Giudice, non è giusto!
Questa non è giustizia! Quell’uomo merita di marcire in carcere!» urlo con il cuore in gola.
«Silenzio in aula» sibila il quattrocchi con strafottenza.
«Lei si sta rendendo
complice in un omicidio» grido con rabbia.
«Faccia silenzio o la devo
allontanare dall’aula.»
Decido
di non continuare. Tanto sarebbe inutile. L’avvocato di Morlacchi, un uomo
viscido quasi quanto il suo cliente, si avvicina e mi sussurra qualcosa
nell’orecchio.
«Il mio cliente non è
colpevole. Sono solo punti di vista.»
Vorrei
esplodere ma non lo faccio. Nella mia mente però ho ben impressa l’immagine che
mi serve. Un uomo anziano, amico di lunga data di mio padre, mi dà una pacca
sulla spalla e afferma amaramente:
«Di cosa ti stupisci?
Questa è l’Italia.»
Angelo
Morlacchi di angelico ha solo il nome. Non è nuovo a queste bravate. Nel 2004,
a soli sedici anni, pestò a sangue un suo compagno di classe. La fece franca
mentre il malcapitato perse un rene. Nel 2007 investì una suora. La fece franca
mentre la suora rimase in ospedale per quasi quattro mesi. Due anni fa, durante
una lite, ha accoltellato uno spacciatore di droga. Indovinate un po’? Anche in
quell’occasione fu graziato e si fece solo due settimane ai domiciliari.
Sono
passate tre settimane da quella scandalosa sentenza. In teoria l’assassino
della mia famiglia dovrebbe essere ai domiciliari, ma ho come la netta
sensazione che, soprattutto grazie al padre petroliere, scorrazzi libero per la
città, magari vantandosi di aver fatto fuori il mio povero fratellino. Che cosa
posso fare per cambiare le cose? Come posso fargli capire ciò che è giusto e
ciò che è sbagliato? Come posso educarlo? Nella mia testa le idee viaggiano a
velocità astronomica, accavallandosi l’una sull’altra. Vorrei essere un
supereroe, una sorta di Batman o Spiderman, ma queste sono solo fantasie
dell’adolescente che alberga ancora in me. Non posso di certo scorrazzare tra i
palazzi, acciuffando il delinquente di turno. Devo pensare a qualcosa di
fattibile e intelligente. Devo provare a cambiare le cose.
Non
è stato per niente facile. Il mio piano, seppur meticoloso e articolato, ha
previsto un lungo lavoro quotidiano. Innanzitutto ho dovuto fare alcune
ricerche su persone e fatti. Poi ho dovuto rintracciare certi soggetti e
pedinarne altri. Ma, alla fine, quando stavo quasi per mollare, ci sono
riuscito.
Non
ho fatto tutto da solo. L’avvocato difensore, Marco Barile, è stato
“casualmente” ferito alle gambe con una mazza da baseball. Le ossa sono state
quasi completamente maciullate. Dovrà passare in ospedale quindici mesi e poi,
forse, potrà ricominciare a camminare. Che sia ben chiaro, io non ho fatto
nulla. Ho solo cercato qualche suo nemico. Ho avuto veramente l’imbarazzo della
scelta. Il “signor” Barile ha umiliato e approfittato della bontà di parecchia
gente. Nel 2005 si offrì di aiutare a basso costo un bambino che, a causa di
una trasfusione andata male, aveva contratto l’Aids. Marco Barile, a quanto
pare, si accordò segretamente con l’ospedale colpevole di quell’errore e
s’intascò una bella cifra. Il bambino, convinto che il suo avvocato fosse dalla
sua parte, perse la causa e non vide neanche un centesimo di risarcimento.
Dieci giorni dopo l’avvocato Barile partì per una crociera di due settimane nel
sud dell’America. Quel bambino adesso è un giovane uomo e, nonostante la
malattia, ha deciso di farsi giustizia da solo. Io gli ho solo chiesto:
«Quell’uomo, se rappresenta
il male, merita di essere punito?»
Ha
risposto di sì. Io, ripeto, non ho fatto nulla, ho solo elencato al giovane
uomo gli spostamenti abituali dell’avvocato disonesto.
Per
quanto riguarda il giudice Fabio Salvati invece, la situazione è stata un
tantino diversa. Tra le sue tante decisioni stomachevoli, quella che mi ha
colpito di più è stata quella del 12 gennaio del 2009, dove assolse uno
stupratore dal suo crimine perché la vittima indossava il giorno dello stupro
una gonna corta e quindi provocante. La ragazza, nonostante siano passati quasi
quattro anni da quel terribile giorno, non ha dimenticato l’umiliazione che ha
provato durante quei quaranta lunghissimi minuti. Sente ancora sul suo corpo le
mani viscide e sporche di quell’uomo. Prova a lavare via l’onta della vergogna,
ma non ci riesce. Più si lava e più si sporca. Più si sporca e più si sente
inutile e indegna di vivere in questo mondo. Quando gli ho chiesto «Quell’uomo, se rappresenta il male, merita di essere
punito?» lei ha risposto di sì. Insieme abbiamo
assoldato un paio di bravissimi hacker e abbiamo scoperto che il giudice Fabio
Salvati ha tre conti bancari, di cui uno in svizzera e due alle isole Cayman.
Grazie a loro siamo riusciti a prelevare dai suoi conti tutto quello che aveva,
seicento mila euro, di cui trecento sono andati alla ragazza e gli altri
trecento divisi tra me, i due hacker e altri cinque vittime delle decisioni del
giudice Salvati.
La
vendetta contro Marco Barile e Fabio Salvati è stata piacevole, quasi come un
pasticcino mangiato di nascosto perché sai che la mamma non vuole. Ma il mio
vero obiettivo è sempre stato lui, Angelo Morlacchi. Sono qui, a casa sua,
mentre lo osservo incuriosito. Come può quest’essere di neanche sessanta chili
essere figlio del demonio e del male? Come può agire indisturbato senza che
nessuno faccia qualcosa per fermarlo?
«Non preoccuparti, tra poco
sarà qui» dico con ghigno beffardo.
Leggo
nei suoi occhi un’angoscia che non ha mai provato nella sua vita. Prova a
dimenarsi ma non può fare nulla. Le corde sono molto strette attorno a lui. Non
riesce a muoversi neanche di un millimetro. Prova anche a parlare, ma il nastro
adesivo che gli ho applicato sulla bocca gli impedisce di fare lo sbruffone una
volta tanto. So già cosa vuole dirmi. Molto probabilmente, se non gli avessi
tappato la bocca, mi avrebbe riempito d’insulti o, nella migliore delle
ipotesi, mi avrebbe offerto qualsiasi somma di denaro per la sua libertà,
magari supplicandomi perdono, anche se so che nel suo cuore non albergano certi
sentimenti. Non gliene fregava niente della mia famiglia. E a me non frega
nulla di lui, dei suoi soldi e delle sue lamentele da ragazzo di città ricco e
viziato.
Suonano
al campanello ed io apro la porta. So già chi è, non serve chiedere. Chi può
essere a quest’ora di notte se non lui? L’uomo entra nell’appartamento con
sguardo furtivo. Trascina con fatica il corpo di un uomo.
«L’hai ucciso?» domando perplesso.
«No, non preoccuparti. Ha
solo ingerito un sonnifero.»
Non
oso chiedergli il perché e il percome. Lo vedo trascinare il corpo su una poltrona
mentre osservo stancamente dalla finestra la luna. Lei si che è felice, sola e
spensierata nel cielo mentre chiacchiera con le stelle, e non come me che devo
vivere la mia intera esistenza senza la mia famiglia, senza nessuno che mi
voglia bene. Gironzolo per la casa. Ci sono dvd pornografici ovunque, giochi
della play station, consolle varie, tv, stereo, computer, strani oggetti
sessuali, gioielli, orologi e abiti di marca. Non c’è neanche l’ombra di un
libro, neanche il libretto d’istruzioni della friggitrice. Niente di niente.
Questo è l’appartamento di un idiota scansafatiche. Ma non riesco a odiarlo di
meno per questo. Torno da Angelo e vedo i suoi occhi iniettati di paura. Ha
riconosciuto sia l’uomo svenuto sia il mio complice.
«Caro Angelo, ti ricordi di
me? Hai ucciso la mia famiglia alcune settimane fa. Vorrei presentarti un mio
caro amico, si chiama Luca Pietrangeli. Forse ti ricordi di lui. Nel 2004, per
impressionare una ragazza con la tua presunta forza, hai picchiato a sangue il
mio amico, facendogli perdere per sempre un rene.»
Sono
curioso di sapere, di sentire. Tolgo con forza il nastro adesivo dalla bocca di
Angelo che, stranamente, non urla per lo strappo. Comincia a piangere e a
invocare perdono.
«Vi prego, perdonatemi. Vi
giuro che cambierò. Posso darvi tutti i soldi che volete.»
Luca
è una statua di ghiaccio. Il suo sguardo è freddo e atroce. Non ne ho mai visto
uno così. Forse però è solo il mio sguardo riflesso nei suoi occhi. E la cosa
non mi stupisce per niente.
«Per colpa tua ho dovuto
cambiare scuola. Il mio corpo è sempre stanco e spesso non accompagna quello
che il mio cervello gli ordina di fare. Per colpa tua non ho mai avuto un amico
né tantomeno una ragazza. Sei la persona più malvagia che abbia mai conosciuto.
Meriti di essere punito. Stanotte pagherai le tue colpe, stanne certo. E le
pagherai con gli interessi.»
Pietro
Morlacchi, il ricco padre di Angelo, si è appena svegliato. Al suo fianco Luca
sta picchiando con avidità suo figlio. Non so cosa provo, non so cosa penso. So
solo che tutto questo è necessario, anche se a volte penso di aver sbagliato
tutto. Abbasso il capo. Ne ho abbastanza di tutto questo sangue. Lo sento
persino sulle mie mani. Per un attimo mi ricorda il sangue della mia famiglia
sull’asfalto rovente. Angelo è svenuto, ma Luca continua a colpirlo
violentemente, coprendo con il suono dei suoi pugni le urla di Pietro.
«Smettila. Credo che abbia
capito la lezione.»
«No, non basta.»
So
che Michele, il mio sfortunato fratellino, non approverebbe tutto questo. Mi
vergogno di aver organizzato questa vendetta.
«Ti prego, smettila!» urlo con le lacrime agli occhi.
Non
attendo neanche una risposta. È assurdo, sto piangendo per la sorte
dell’assassino della mia famiglia. Vorrei essere forte. Vorrei fermare Luca, ma
non ne ho il coraggio. Forse l’ho perso tanto tempo fa. Scendo velocemente le
scale e mi ritrovo in strada. La città sta dormendo, è deserta. Con
l’adrenalina che mi scorre a mille nelle vene, corro verso casa. Non bado
neanche a chiudere il portone che mi fiondo nella stanza di Michele. Prendo una
sua foto, quella dove sorride felice in sella a un pony, e la porto al petto.
Le lacrime continuano a scendere copiose mentre cerco di infliggermi delle
punizioni che forse non merito. A volte penso di essere stato io ad aver
causato la morte dei miei genitori. Cerco di attribuirmi delle colpe che non ho
per distogliere il mio odio e il mio rancore dal vero colpevole.
Ma forse questi sono solo
punti di vista.
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