14 marzo 2016

I Vostri racconti: "Sono solo punti di vista" di Luigi Dinardo

parole incantate davanti a una tazza sul blog letterario de le tazzine di yoko - rubrica racconti
Buon pomeriggio cuplovers!
Oggi vi presentiamo un nuovo racconto della nostra rubrica “parole incantate davanti a una tazza”.

“Sono solo punti di vista” di Luigi Dinardo parla di ingiustizie, dei privilegi delle persone ricche cui basta un nome e tanti soldi per sfuggire alla legge e di un uomo che ha deciso di farsi giustizia da solo.


Sono solo punti di vista
di LUIGI DINARDO

Sono qui, in quest’aula di tribunale, ad attendere con trepidazione la sentenza del giudice. Ma ho come la netta sensazione di sapere come andrà a finire. Angelo Morlacchi, l’uomo che ha disintegrato la mia famiglia con il suo Suv da cinquantamila euro, ha un malefico sorriso stampato sul volto. Non mi stupirei se si fosse comprato questo giudice da strapazzo con gli occhiali quadrati. Sembra essere uscito da una di quelle serie americane tanto di moda negli ultimi tempi. Incrocio il suo sguardo per un attimo. È assente, perso nel vuoto. Forse vuole solo tornare a casa per pranzare con la sua patetica moglie. Di mia madre non gliene frega niente. Non gli interessa sapere che è morta cercando di proteggere con il suo corpo il piccolo Michele, sei anni appena ma tanta voglia di giocare al gioco più bello del mondo: la vita. Scommetto che non sa neanche il nome di mio padre, un infaticabile lavoratore che ha donato tutto se stesso alla famiglia. No, non vuole fare giustizia. Vuole solo tornare a casa. Ha l’aria stanca, assonnata, non vede l’ora di chiudere la pratica. Non voglio però che tutto sia così semplice. Non può finire tutto in una bolla di sapone.
L’aula si fa silenziosa. Il brusio s’interrompe di colpo e il giudice prende la parola.
«Condanno l’imputato a otto mesi di arresti domiciliari.»
Quel parassita assassino di Angelo Morlacchi sorride. Forse sapeva come sarebbe andata a finire. È ricco, giovane, famoso e altolocato. Può comprarsi mezza città se vuole. Ma dentro di lui alberga il male più assoluto. Non si possono uccidere tre persone sulle strisce pedonali senza neanche provare a soccorrerle. Non si può guidare un’auto con un quantitativo di alcol nel corpo sei volte superiore al consentito. Non si può tollerare tutto questo. Ed io di certo non me ne starò qui con le mani in mano.
«Giudice, non è giusto! Questa non è giustizia! Quell’uomo merita di marcire in carcere!» urlo con il cuore in gola.
«Silenzio in aula» sibila il quattrocchi con strafottenza.
«Lei si sta rendendo complice in un omicidio» grido con rabbia.
«Faccia silenzio o la devo allontanare dall’aula.»
Decido di non continuare. Tanto sarebbe inutile. L’avvocato di Morlacchi, un uomo viscido quasi quanto il suo cliente, si avvicina e mi sussurra qualcosa nell’orecchio.
«Il mio cliente non è colpevole. Sono solo punti di vista.»
Vorrei esplodere ma non lo faccio. Nella mia mente però ho ben impressa l’immagine che mi serve. Un uomo anziano, amico di lunga data di mio padre, mi dà una pacca sulla spalla e afferma amaramente:
«Di cosa ti stupisci? Questa è l’Italia.»

Angelo Morlacchi di angelico ha solo il nome. Non è nuovo a queste bravate. Nel 2004, a soli sedici anni, pestò a sangue un suo compagno di classe. La fece franca mentre il malcapitato perse un rene. Nel 2007 investì una suora. La fece franca mentre la suora rimase in ospedale per quasi quattro mesi. Due anni fa, durante una lite, ha accoltellato uno spacciatore di droga. Indovinate un po’? Anche in quell’occasione fu graziato e si fece solo due settimane ai domiciliari.
Sono passate tre settimane da quella scandalosa sentenza. In teoria l’assassino della mia famiglia dovrebbe essere ai domiciliari, ma ho come la netta sensazione che, soprattutto grazie al padre petroliere, scorrazzi libero per la città, magari vantandosi di aver fatto fuori il mio povero fratellino. Che cosa posso fare per cambiare le cose? Come posso fargli capire ciò che è giusto e ciò che è sbagliato? Come posso educarlo? Nella mia testa le idee viaggiano a velocità astronomica, accavallandosi l’una sull’altra. Vorrei essere un supereroe, una sorta di Batman o Spiderman, ma queste sono solo fantasie dell’adolescente che alberga ancora in me. Non posso di certo scorrazzare tra i palazzi, acciuffando il delinquente di turno. Devo pensare a qualcosa di fattibile e intelligente. Devo provare a cambiare le cose.

Non è stato per niente facile. Il mio piano, seppur meticoloso e articolato, ha previsto un lungo lavoro quotidiano. Innanzitutto ho dovuto fare alcune ricerche su persone e fatti. Poi ho dovuto rintracciare certi soggetti e pedinarne altri. Ma, alla fine, quando stavo quasi per mollare, ci sono riuscito.
Non ho fatto tutto da solo. L’avvocato difensore, Marco Barile, è stato “casualmente” ferito alle gambe con una mazza da baseball. Le ossa sono state quasi completamente maciullate. Dovrà passare in ospedale quindici mesi e poi, forse, potrà ricominciare a camminare. Che sia ben chiaro, io non ho fatto nulla. Ho solo cercato qualche suo nemico. Ho avuto veramente l’imbarazzo della scelta. Il “signor” Barile ha umiliato e approfittato della bontà di parecchia gente. Nel 2005 si offrì di aiutare a basso costo un bambino che, a causa di una trasfusione andata male, aveva contratto l’Aids. Marco Barile, a quanto pare, si accordò segretamente con l’ospedale colpevole di quell’errore e s’intascò una bella cifra. Il bambino, convinto che il suo avvocato fosse dalla sua parte, perse la causa e non vide neanche un centesimo di risarcimento. Dieci giorni dopo l’avvocato Barile partì per una crociera di due settimane nel sud dell’America. Quel bambino adesso è un giovane uomo e, nonostante la malattia, ha deciso di farsi giustizia da solo. Io gli ho solo chiesto:
«Quell’uomo, se rappresenta il male, merita di essere punito?»
Ha risposto di sì. Io, ripeto, non ho fatto nulla, ho solo elencato al giovane uomo gli spostamenti abituali dell’avvocato disonesto.
Per quanto riguarda il giudice Fabio Salvati invece, la situazione è stata un tantino diversa. Tra le sue tante decisioni stomachevoli, quella che mi ha colpito di più è stata quella del 12 gennaio del 2009, dove assolse uno stupratore dal suo crimine perché la vittima indossava il giorno dello stupro una gonna corta e quindi provocante. La ragazza, nonostante siano passati quasi quattro anni da quel terribile giorno, non ha dimenticato l’umiliazione che ha provato durante quei quaranta lunghissimi minuti. Sente ancora sul suo corpo le mani viscide e sporche di quell’uomo. Prova a lavare via l’onta della vergogna, ma non ci riesce. Più si lava e più si sporca. Più si sporca e più si sente inutile e indegna di vivere in questo mondo. Quando gli ho chiesto «Quell’uomo, se rappresenta il male, merita di essere punito?» lei ha risposto di sì. Insieme abbiamo assoldato un paio di bravissimi hacker e abbiamo scoperto che il giudice Fabio Salvati ha tre conti bancari, di cui uno in svizzera e due alle isole Cayman. Grazie a loro siamo riusciti a prelevare dai suoi conti tutto quello che aveva, seicento mila euro, di cui trecento sono andati alla ragazza e gli altri trecento divisi tra me, i due hacker e altri cinque vittime delle decisioni del giudice Salvati.
La vendetta contro Marco Barile e Fabio Salvati è stata piacevole, quasi come un pasticcino mangiato di nascosto perché sai che la mamma non vuole. Ma il mio vero obiettivo è sempre stato lui, Angelo Morlacchi. Sono qui, a casa sua, mentre lo osservo incuriosito. Come può quest’essere di neanche sessanta chili essere figlio del demonio e del male? Come può agire indisturbato senza che nessuno faccia qualcosa per fermarlo?
«Non preoccuparti, tra poco sarà qui» dico con ghigno beffardo.
Leggo nei suoi occhi un’angoscia che non ha mai provato nella sua vita. Prova a dimenarsi ma non può fare nulla. Le corde sono molto strette attorno a lui. Non riesce a muoversi neanche di un millimetro. Prova anche a parlare, ma il nastro adesivo che gli ho applicato sulla bocca gli impedisce di fare lo sbruffone una volta tanto. So già cosa vuole dirmi. Molto probabilmente, se non gli avessi tappato la bocca, mi avrebbe riempito d’insulti o, nella migliore delle ipotesi, mi avrebbe offerto qualsiasi somma di denaro per la sua libertà, magari supplicandomi perdono, anche se so che nel suo cuore non albergano certi sentimenti. Non gliene fregava niente della mia famiglia. E a me non frega nulla di lui, dei suoi soldi e delle sue lamentele da ragazzo di città ricco e viziato.
Suonano al campanello ed io apro la porta. So già chi è, non serve chiedere. Chi può essere a quest’ora di notte se non lui? L’uomo entra nell’appartamento con sguardo furtivo. Trascina con fatica il corpo di un uomo.
«L’hai ucciso?» domando perplesso.
«No, non preoccuparti. Ha solo ingerito un sonnifero.»
Non oso chiedergli il perché e il percome. Lo vedo trascinare il corpo su una poltrona mentre osservo stancamente dalla finestra la luna. Lei si che è felice, sola e spensierata nel cielo mentre chiacchiera con le stelle, e non come me che devo vivere la mia intera esistenza senza la mia famiglia, senza nessuno che mi voglia bene. Gironzolo per la casa. Ci sono dvd pornografici ovunque, giochi della play station, consolle varie, tv, stereo, computer, strani oggetti sessuali, gioielli, orologi e abiti di marca. Non c’è neanche l’ombra di un libro, neanche il libretto d’istruzioni della friggitrice. Niente di niente. Questo è l’appartamento di un idiota scansafatiche. Ma non riesco a odiarlo di meno per questo. Torno da Angelo e vedo i suoi occhi iniettati di paura. Ha riconosciuto sia l’uomo svenuto sia il mio complice.
«Caro Angelo, ti ricordi di me? Hai ucciso la mia famiglia alcune settimane fa. Vorrei presentarti un mio caro amico, si chiama Luca Pietrangeli. Forse ti ricordi di lui. Nel 2004, per impressionare una ragazza con la tua presunta forza, hai picchiato a sangue il mio amico, facendogli perdere per sempre un rene.»
Sono curioso di sapere, di sentire. Tolgo con forza il nastro adesivo dalla bocca di Angelo che, stranamente, non urla per lo strappo. Comincia a piangere e a invocare perdono.
«Vi prego, perdonatemi. Vi giuro che cambierò. Posso darvi tutti i soldi che volete.»
Luca è una statua di ghiaccio. Il suo sguardo è freddo e atroce. Non ne ho mai visto uno così. Forse però è solo il mio sguardo riflesso nei suoi occhi. E la cosa non mi stupisce per niente.
«Per colpa tua ho dovuto cambiare scuola. Il mio corpo è sempre stanco e spesso non accompagna quello che il mio cervello gli ordina di fare. Per colpa tua non ho mai avuto un amico né tantomeno una ragazza. Sei la persona più malvagia che abbia mai conosciuto. Meriti di essere punito. Stanotte pagherai le tue colpe, stanne certo. E le pagherai con gli interessi.»
Pietro Morlacchi, il ricco padre di Angelo, si è appena svegliato. Al suo fianco Luca sta picchiando con avidità suo figlio. Non so cosa provo, non so cosa penso. So solo che tutto questo è necessario, anche se a volte penso di aver sbagliato tutto. Abbasso il capo. Ne ho abbastanza di tutto questo sangue. Lo sento persino sulle mie mani. Per un attimo mi ricorda il sangue della mia famiglia sull’asfalto rovente. Angelo è svenuto, ma Luca continua a colpirlo violentemente, coprendo con il suono dei suoi pugni le urla di Pietro.
«Smettila. Credo che abbia capito la lezione.»
«No, non basta.»
So che Michele, il mio sfortunato fratellino, non approverebbe tutto questo. Mi vergogno di aver organizzato questa vendetta.
«Ti prego, smettila!» urlo con le lacrime agli occhi.
Non attendo neanche una risposta. È assurdo, sto piangendo per la sorte dell’assassino della mia famiglia. Vorrei essere forte. Vorrei fermare Luca, ma non ne ho il coraggio. Forse l’ho perso tanto tempo fa. Scendo velocemente le scale e mi ritrovo in strada. La città sta dormendo, è deserta. Con l’adrenalina che mi scorre a mille nelle vene, corro verso casa. Non bado neanche a chiudere il portone che mi fiondo nella stanza di Michele. Prendo una sua foto, quella dove sorride felice in sella a un pony, e la porto al petto. Le lacrime continuano a scendere copiose mentre cerco di infliggermi delle punizioni che forse non merito. A volte penso di essere stato io ad aver causato la morte dei miei genitori. Cerco di attribuirmi delle colpe che non ho per distogliere il mio odio e il mio rancore dal vero colpevole.
Ma forse questi sono solo punti di vista.


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